Alcuni anni or sono le prime indispensabili prove artistiche di Giacobbe Giusti lo portarono a realizzare spettacolari totem arcaici e quadri-scultura dai contorni frastagliati e stellari. Totem come icone ritrovate di clan neoprimitivi e quadri sculture come amebe fossili dissotterrate da passati più o meno remoti.
Non esente dalla lezione dei Nuovi Selvaggi tedeschi e transitando per l’espressionismo astratto americano, quello più dionisiaco di Pollock, quelle opere erano realizzate con basi legnose e sovrapposizioni materiche di poliuretani, pietre, fili spinati, plastiche, spruzzate con ferocia di colori presto disseccati.
Era evidente non solo una denuncia alla società attuale, dalla natura violata alle sue creature violentate, umanità compresa, ma anche la più profonda constatazione di una generale condizione sofferente dell’esistenza e che ritrovava nell’esperienza artistica una compiuta nemesi.
Una delle caratteristiche indispensabili di un artista è la ricerca e la determinazione con la quale si attua, naturale quindi che Giusti seguitasse la sua esplorazione e da quella pur copiosa ed energica produzione (ancora in massima parte da scoprire) saggiasse le vie di un approccio specifico che lo qualificasse, soprattutto nel confronto con i grandi scultori antichi e moderni, dei quali recupera compattezza e solidità che sono anche la traccia sostanziale da seguire per leggere le opere degli ultimi anni, alcune delle quali esposte in questa mostra.
Qui la scultura di Giusti non abbandona la personale dinamica espressiva, certo l’attenua ma la rende più rigorosa, meno prolissa. Ritrova una classica misura, non ritratta i soggetti di accusa che la pervadono ancora come lingue di fuoco sotterranee, e raggiunge una pausa di meditazione incondizionata, senza referenze e spiegazioni, se non lo stesso esserci e proporsi in quanto tale, soprattutto per quanto riguarda le pietre e i macigni, opere che ritengo tra le più compiute.
E’ un cammino che avviene sicuro per fasi.
Dapprima infatti si fa strada la necessità di un distinto materiale, non solo teorico che, attraverso verifiche e sperimentazioni molteplici passa anche per l’acciaio, saldato e addolcito in sagome metamorfiche le cui superfici appaiono marcate da tratti aborigeni, fino a pervenire all’alluminio, impiegato con procedimento nuovo, e che ben si presta a specchiante metafora del contemporaneo, per l’ampio utilizzo operato dall’industria, per le sue doti di versatilità e leggerezza, per la sua ludica virtualità metallica.
E’ questo, un materiale che lo scultore ha sentito intimamente congeniale alla propria ricerca, non colato o fuso, ma saldato che è operazione problematica e disagevole.
Una sfida che gli rende giustizia, se dalle superfici spiegazzate, accartocciate o imbullonate, con una consistenza da carta stagnola, altrimenti tormentata, come altrettanto lucidamente consumata e abbandonata, egli perviene alle grandi figure nelle quali si intuiscono insoliti antropomorfismi, per i quali ha ancora voluto un inamovibile dinamismo, fino dunque ad approdare al lavorìo di fiori e particolarmente delle pietre e dei massi che, giganteschi dolmen e menhir, manifestano un’eventuale dimensione metallica dell’esistere di Madre Natura, Natura e Uomo, da sempre il punto di partenza e di attracco del lavoro di Giacobbe Giusti. Sono anche i due confini ideali che emergono dalle acrobazie magmatiche della saldatura, e che testimoniano nelle superfici, ora brillanti e splendenti, ora satinate e levigate, le ferite di arcaiche fratture, espresse dalle riassorbite lacerazioni, per indicare che il viaggio prosegue ancora oltre, instancabile, ad esprimere nuove peregrinazioni e nuovi arrivi.
Michele Loffredo